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L'eccesso di grasso che ricopre cuore e coronarie non fa più paura
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L'eccesso di grasso che ricopre cuore e coronarie non fa più paura

I farmaci utilizzati nel trattamento del diabete di tipo II e dell'obesità riducono il grasso che riveste il cuore, conosciuto come grasso adiposo epicardico. Ciò mette al riparo i pazienti dal rischio di scompenso, ischemie e aritmie.

L'eccesso di grasso che ricopre il cuore e coronarie non fa più paura. Grazie da uno studio pubblicato sull'International Journal of Cardiology, si è scoperto che i farmaci utilizzati nel trattamento del diabete di tipo II e dell'obesità riducono il grasso che riveste il cuore, conosciuto come grasso adiposo epicardico (Epicardinal Adipose Tuissue - EAT). Lo studio, al quale hanno collaborato il Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute dell'Università degli Studi di Milano e l'Irccs Policlinico San Donato, spiega come un eccesso di grasso epicardico non solo produce effettui dannosi per il cuore, aumentando il rischio di scompenso, ma favorisce l'ateriosclerosi e il peggioramento del microcircolo, esponendo maggiormente alle ischemie e aritmie.
In condizioni normali, il grasso epicardico, il grasso che ricopre le coronarie e il cuore, ha una funzione termogenica e strutturale; cioè ha il compito di mantenere stabili nella loro sede, le coronarie, anche quando la frequenza del battito cardiaco aumenta, e di proteggere il muscolo cardiaco, tenendolo al caldo.
Quindi, il grasso epicardico fa in modo che la temperatura del cuore sia sempre ottimale e che le coronarie rimangano stabilmente nella loro sede, pur aumentando la frequenza del battito.
Un eccesso di grasso epicardico, invece, tipico nei soggetti con obesità, ha effetti dannosi sul cuore, sottoponendolo a rischi di scompenso, modificandone il metabolismo, alterandone la struttura e la mobilità, danneggiando la funzione della pompa cardiaca. Questo eccesso, favorisce l'ateriosclerosi, peggiora il microcircolo, espone maggiormente ad ischemie. In aggiunta, filtrando la parete del muscolo cardiaco, può generare anomalie nel battito e aritmie.

“A una pancia grassa corrisponde un cuore grasso” spiega il dottor Alexis Elias Malavazos, responsabile del Centro di Dietetica, Educazione Alimentare e Prevenzione Cardiometabolica dell’Irccs Policlinico San Donato. “L'eccesso di grasso epicardico genera un’azione infiammatoria direttamente sulle pareti delle arterie coronarie e sul muscolo cardiaco. Questa funzione pro-infiammatoria del grasso è un predittore indipendente di coronaropatia e di rischio metabolico. Questo nuovo lavoro, oltre a confermarne il ruolo di importante fattore di rischio, apre la strada alla considerazione che il grasso epicardico é un vero e proprio target terapeutico, su cui in futuro si potrà agire direttamente” .

Il fatto che ha dato avvio allo studio è l’osservazione nella pratica clinica dell’effetto dei farmaci incretino-mimetici sui cuori dei pazienti. Questi farmaci - ad oggi comunemente impiegati nella terapia del diabete e dell’obesità - “mimano” l’azione delle incretine, gli ormoni che, normalmente prodotti dall’intestino, stimolano il pancreas a produrre insulina e che abbassano il glucosio nel sangue. I pazienti diabetici e obesi in terapia con gli incretinomimetici presentano una riduzione molto importante dello spessore del grasso cardiaco (fino al 36%); riduzione non correlata direttamente alla perdita di peso complessivo e al miglioramento del controllo del glucosio. “Abbiamo studiato campioni di EAT prelevato da pazienti affetti da patologia coronarica sottoposti a intervento chirurgico di bypass e abbiamo riscontrato che EAT esprime una molecola specifica (GLP-1R) che funziona da recettore per le incretine, i cui livelli sono associati a geni che, oltre a ridurre la creazione di nuovo grasso (adipogenesi), promuovono l’ossidazione degli acidi grassi e il differenziamento delle cellule grasse da bianche a brune, favorendo il dispendio energetico e la perdita di grasso. Attraverso l’azione su EAT deriva, quindi, un’importante funzione protettiva a livello del cuore.” - Conclude Elena Dozio, ricercatrice di Patologia clinica al Dipartimento di Scienze biomediche per la salute dell'Università degli Studi di Milano.

di Nicola Vaglia


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